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In realtà questi guerrieri non erano semplici soldati, ma costituivano una casta colta che praticava molte altre arti, oltre a quelle marziali necessarie ai propri compiti. Un vero samurai si interessava di musica, poesia, pittura, teatro, collezionava pregiate porcellane, sapeva disporre artisticamente i fiori, aveva insomma l’obbligo di far coesistere dentro di sé in maniera equilibrata la forza militare e la potenza della cultura.
Questo era prescritto proprio dal loro codice d’onore, il Bushido (la via del guerriero), a cui ogni samurai doveva attenersi, anche se nel corso dei secoli ci furono molti cambiamenti, anche su concetti fondamentali come quello dell’onore: per un testo è basato sull’obbedienza cieca al proprio signore, e sull’accettazione della morte; in un altro è legato alla ricerca della perfezione, e alla completezza culturale.
Probabilmente proprio questi aspetti, così lontani dalla classica figura del rude soldato, comune nei paesi occidentali, hanno alimentato il mito del samurai, fino a idealizzare fin troppo questa figura: in alcuni momenti della storia giapponese anche questi nobili guerrieri si resero colpevoli di atti di barbarie e saccheggi, oppure si trasformarono in semplici burocrati di palazzo, che usavano la loro spada solo durante alcuni cerimoniali.
Quello che rende però così distante, e forse per questo così affascinate, la figura del samurai, è probabilmente la concezione della morte, e la capacità di affrontarla con stoico coraggio, non solamente in battaglia, come si addiceva ad un vero guerriero, ma anche quando il samurai, o per espiare una colpa, o per sfuggire ad una morte disonorevole, si suicidava volontariamente, seguendo regole rigidamente codificate.
Il taglio del ventre detto seppuku 切腹 (o harakiri 腹切), eseguito sempre da sinistra verso destra e poi verso l’alto, aveva il significato di simbolico di mostrarne la purezza, perché considerato la sede dell’anima. Nel corso dei secoli si instaurò la consuetudine che anche i samurai condannati a morte si suicidassero, perché questo non comportava disonore.
Paradossalmente, considerato il loro codice d’onore improntato all’obbedienza, l’atto finale degli ultimi samurai fu un gesto di ribellione: nel 1877 si ribellarono allo smantellamento della loro casta, sostituita da un esercito nazionale e centralizzato. I samurai uscirono sconfitti, e Saigo Takamori, il capo della rivolta, scelse il suicidio, che lo fece diventare un eroe nazionale anziché un guerriero sconfitto.